Quando un mio zio, amicissimo del presidente Abbruzzese, mi portò per la prima volta allo stadio, il «della Vittoria» aveva poco più di due anni. Era stato, infatti, inaugurato il 6 settembre 1934 da Mussolini e la prima partita giocata dal Bari risaliva al 16 dicembre 1934, in serie B.
Frequentavo le elementari ed eravamo in piene vacanze natalizie 1936. Durante le feste, fra il «capitone» della Vigilia ed il cenone di S. Silvestro, a tavola l’argomento era stato uno solo: il Bari. Un Bari che aveva già 29 anni di vita (fondato la sera del 15 gennaio 1908 mentre l’atto costitutivo era stato steso 1’11 aprile 1908) e che da nove campionati era vissuto fra serie B e serie A dopo la fusione con l’Ideale avvenuta il 27 febbraio 1928.
I miei zii con mio padre, raccontavano delle imprese di «Faele» Costantino, detto il «reuccio», ritenuto la migliore ala destra del mondo. Aveva giocato in nazionale A nonostante militasse in B col Bari ed all’anagrafe fosse un uomo del sud. Ventitre partite con la maglia azzurra ed otto gol segnati, costituivano il fiore all’occhiello per questo eccezionale giocatore che Bari ed i baresi non scorderanno mai.
Costantino, però, era stato alcuni anni anche alla Roma, ceduto dal Bari nel 1930, per questione di «cassetta», al prezzo di 100 mila lire, cifra da capogiro per l’epoca.
Era ritornato nel 1935 quando noi «figli della lupa» marciavamo cantando «faccetta nera» e l’Italia sognava un posto al sole, per un «impero» da conquistare in Africa Orientale.
Costantino era tornato anche perché il Bari era rientrato, dopo due anni, in serie A. Una serie A perduta nel 1933 e durata due stagioni durante le quali si erano distinti giocatori di valore come Dario Gay, Renzino Paradiso, Antonio Bisigato, Luigi Giuliani e poi ancora Bodini, Massiglia, Ballerio, Antonicich italianizzato in Antonelli, i portieri Zamberletti, Cubi e Casirago e successivamente Frossi, Giacobbe e Marchionneschi.
Il ritorno di Costantino coincideva con la più lunga serie d’imbattibilità del Bari in serie A: 9 partite utili consecutive dalla «settima» alla «quindicesima» per 15 punti (2 per vittoria) ottenuti dal 10 novembre 1935 al 12 gennaio 1936 e con 5 vittorie di seguito. Un’impresa di primo piano, per una «provinciale» come il Bari, ribattezzata prima «squadra fenomeno» e poi «la pattuglia dei senza paura» e con un giovane presidente alla guida: Giovanni Di Cagno Abbrescia.
Era stato proprio questo sorprendente «boom» a riscaldare i tifosi e a farli accorrere in maggior numero allo stadio che, con i suoi collaudati 44 mila posti, era troppo grande per una folla ancora troppo modesta.
Passato alla presidenza del Bari Peppino Abbruzzese di Bitetto (primo presidente del Bari non nativo del capoluogo), la squadra si presentava ricca di nomi prestigio si: non c’era soltanto l’idolo Costantino, ma c’erano Ferraris IV (28 volte azzurro e campione del mondo 1934), Marini e Setti, due terzini subito «prelevati» da società del nord, Braga, Giacobbe, Brossi, Ferrero, Loetti, Violi ed i giovani baresi autentici: Capocasale, Fusco, Caldarulo, Dentuti, Alfonso, Rossini e Cesarino Grossi.
L’entusiasmo aveva coinvolto un po’ tutti. Prima di quel Natale 1936, il Bari dopo 12 partite vantava 13 punti. Come non parlare della squadra, dei suoi protagonisti, mangiando il «cappone» e gustando le «cartellate»?. Fu così che il giorno di Capodanno del 1937, in famiglia, fu deciso che sarei stato portato per la prima volta a vedere dal «vivo» il Bari, senza attendere le poche foto che il «calcio illustrato» proponeva settimanalmente (il giovedì) e le notizie che noi ragazzi leggevamo sul «Corriere dei piccoli» o sul «Balilla» quando si occupavano (raramente) di calcio. Per fortuna c’erano l’edizione del lunedì (di colore azzurrino) della «Gazzetta del Mezzogiorno» ed il trisettimanale «Cinesport» di Ferdinando Pinto, notissimo perché stampato su carta gialla. Vedere, comunque, il Bari in «diretta» costituiva per me un evento, assieme a una gioia con immensa emozione.
Faceva freddo: era il 3 gennaio 1937. Allo stadio arrivammo a bordo di una vecchia carrozzella trainata da un ronzino che correva oltanto sotto la spinta del cocchiere.
Avversario di turno l’Alessandria e mio zio ripeteva in continuazione che il Bari doveva fare attenzione all’ex centravanti Banchero, già nazionale. Sentire parlare di «ex» mi fece un certo effetto perché non riuscivo ad afferrare il significato di quel termine nei confronti del centravanti dell’Alessandria. Mi fu subito spiegato che Banchero era stato il bomber del Bari alcuni anni prima e che avrebbe giocato per farsi valere e possibilmente per segnare.
Prendemmo posto sotto la «torre di Maratona» che mi sembrò altissima e maestosa. A mala pena ascoltammo le formazioni. Un tifoso della città vecchia in dialetto ci informò che avrebbe debuttato un ragazzino, uno studente, un certo Capocasale appena ventenne, barese autentico. C’erano, comunque, Casirago, Marini e Setti e la mediana di ferro Mancini, Ferraris IV, Loetti. In avanti: Costantino, Lombardi, Violi, Grolli ed l’esordiente Capocasale.
Appena il tempo di sistemarci ed ecco che l’Alessandria si porta in vantaggio. Chi segna? Manco a dirlo: proprio lui, Banchero, l’ex.
Comincio ad avvertire i primi batticuore che diventano più intensi quando il Bari pareggia con un straordinario Costantino. Si va al riposo sull’1-1 ma proprio all’inizio della ripresa, con un’azione corale, la palla è presa dal giovane Capocasale e spedita alle spalle del portiere alessandrino. Saltai dalla gioia assieme a tutti quelli che mi circondavano (per Capocasale era stato debutto e gol, peraltro decisivo in A) e da quel lontanissimo pomeriggio di freddo e di suspance, incominciava per me la lunga odissea di gioia e di…dolori al seguito della squadra più stramba ma più simpatica del calcio italiano: il Bari, all’epoca chiamata «la Bari».
Quante partite non avrò visto e seguito da quel lontano 3 gennaio 1937 sino ad oggi? Pochissime e nell’arco di ben 65 anni.
Le ho seguite quasi tutte prima da giovane tifoso, poi da giornalista, successivamente da «patito» per una formazione che non ha mai celato la sua imprevedibilità, facendosi ribatezzare «squadra ascensore» per le sue esaltanti 16 promozioni e per le sue mortificanti altrettante 16 retrocessioni. Si può essere così fedeli e così tifosi di una squadra che ti ha spesso tradito proprio nel momento in cui stava per regalarti una gioia, un traguardo impensato? Rispondo affermativamente perché quando si ama qualcosa (anche una squadra di calcio) non importa come sia, ma cosa conta è come ci si è affezionati.
Personalmente, il mio affetto credo di averlo dimostrato quando, avendo notato un cambio notevole nell’informazione, ho lasciato il giornalismo per “amare” solo il Bari. Un Bari di cui nessuno si era mai occupato della sua storia, delle sue vicissitudini, delle sue infinite peripezie concretizzatesi -si badi bene- addirittura in 23 spareggi e qualificazioni, (cifra record per una squadra del nostro Belpaese).
Chi potrà scordare l’esodo del primo tifo motorizzato a Napoli nel 1954 e quello imponente a Bologna e a Roma nel 1958? E la risalita dalla IV Serie alla B? (con Tarsia Incuria al vertice e Capocasale in panchina).
Nel 1967, in C, al termine di un Bari-Siracusa finito 5-0 con quattro gol segnati dal centravanti Mujesan, mi fu chiesto se in precedenza ci fosse stato un altro giocatore del Bari a firmare quattro gol in 90’.
Un interrogativo allettante che mi spinse a cominciare quella lunga ricerca minuziosa che doveva, poi, portare a farmi scrivere il primo libro sulla storia del Bari e successivamente altri 10.
Veniva, così, alla luce che prima di Mujesan, cannoniere potente, avevano segnato 4 gol in una sola partita: Bottaro nel 1931 contro la Pistoiese, Scategni pure nel 1931 contro la Liguria (ora Sampdoria), Bisigato in A contro il Genoa (1932) e Marchionneschi nel 1933 contro la Pistoiese. Una storia che è una fiaba. Quando la raccontai ad un giornalista inglese, mi disse: “Se l’odissea del Bari fosse capitata ad una squadra britannica, sarebbe sprofondata in mare con tutta l’isola”.
Su palcoscenico del «campo degli sport» (ormai scomparso) e sul terreno del «della Vittoria», sono sfilati nomi prestigiosi anche per un’era pionerista come quella del calcio degli «anni trenta». Nell’immediato dopoguerra, dopo l’invasione nello stadio da parte dei carri armati – i famosi tanks -del generale Montgomery, il Bari diventava straordinario ottenendo nel 1946-47 in Ciccio Capocasale, prima giocatore poi allenatore A un dignitoso settimo posto dopo essere stato per un lungo tempo anche terzo in classifica. Ricordo quel periodo fra i più belli per noi giovani tifosi: Costagliola, Fusco, Pellicari, Giammarco, Orlando, Carlini, Capocasale, Isetto, Cavone, Maestrelli, Tontodonati, Tavellin, Fabbri, Spadavecchia, erano i nostri idoli che ci esaltavano dopo gli anni bui del secondo conflitto mondiale. Memorabile la vittoria sul grande Torino di Loik e Mazzola del 21 settembre 1947 ottenuta in pieno periodo «fieristico» (la prima Fiera del Levante del dopo-guerra) con un indimenticabile gol di Tavellin al 26’ della ripresa al portiere Bacigalupo.
Un Bari – con Mario Borrelli Direttore Sportivo e Tommaso Annoscia presidente – che ci faceva gioire: eravamo un popolo di tifosi felici e non lo sapevamo.
Si succedevano gli stranieri (Voros, Hrotko, Kinckes, Fabian, fra i più noti), si esaltavano fra i pali prima Nardino Costagliola, definito il «gatto magico» e poi Beppe Moro ribattezzato «l’acchiapparigori» per averne parati 5 su 7 nel torneo di A 1948-1949, dieci anni dopo la scomparsa di quello che è stato ritenuto il più forte e più amato centravanti del Bari: Cesarino Grossi, morto in grigio-verde (aprile 1939), in Albania mentre serviva la Patria.
Sono passati oltre 60 anni ed il ricordo di Ninì Grossi è sempre vivo. Lo vedo ancora lì, in mezzo ai difensori avversari, così piccolo e minuto, (lo chiamavano il «topolino della A»), destreggiandosi da campione e segnare gol da copertina, anzi da antologia. Vederlo giocare era un piacere per tutti. Un divertimento ed una gioia.
Soltanto nel 1958, quando il Bari risaliva dopo 8 anni di vita da sconfitto sui campi di terra battuta della C e della IV serie meridionale, i tifosi riprendevano il gusto del calcio fantasioso con Raul Conti, un argentino che i giovani dei mitici «anni sessanta» non potranno mai scordare.
Assieme a Raul Conti restano impressi in tutti noi di fede bianco-rossa, le prodezze di Magnanini, i gol di Erba, la decisione di Romano, la forza di Mupo, lo stile Il Prof. Angelo De Palo, presidente del Bari per 16 anni, assieme a 3 giocatori (Busilacchi, Sega e Marmo) del Bari 1970-71 e all’allenatore Toneatto (a sinistra). (Archivio Antonucci) Biagio Catalano di Cappa, la tenacia di Seghedoni, l’alta fedeltà di Mario Mazzoni (313 partite col Bari), le fughe di De Robertis, lo scatto di Cicogna, la potenza di Biagio Catalano e successivamente le reti imprevedibili di Mujesan e di Galletti, la classe di Fara, la sicurezza di Muccini, le parate di Spalazzi. In questo periodo si erige l’alta figura del prof. De Palo, presidente del Bari dal 1961 al 1977, anno della sua improvvisa scomparsa.
Sono stato l’unico presente alla tragedia (ictus cerebrale) che colpiva il prof. De Palo nel ritiro di Poggio Bustone il 2 agosto 1977. Sono l’unico depositario delle sue ultime volontà: «mi raccomando al Bari», scritte sul foglietto del suo ricettario e che conservo gelosamente nella mia cassaforte. Mi prodigavo con amici sinceri e tifosi come Michele Mincuzzi, Aurelio Gironda, Michele Costantini, per trovare il successore del compianto De Palo al quale tutti dobbiamo qualcosa. Finalmente, la sera del 13 settembre 1977 il gruppo Matarrese dava il suo assenso ed il giovane deputato, On. Antonio, diventava presidente del Bari.
È storia più che recente: sono gli ultimi 25 anni della vita del Bari, dal 1978 al 2002 con la solita etichetta di «squadra ascensore».
Anche sotto l’impero dei Matarrese (prima Antonio, poi Vincenzo) i «sali e scendi» sono stati i soliti distintivi. Dopo 15 anni, comunque, il Bari riusciva nel 1985 a risalire in Acon i gol e i rigori e con le punizioni di Edi Bivi. Ma era sempre meteora, continuando così le sue fatiche di Sisifo. Questo è il «mio» Bari, ormai novantacinquenne, primo amore da fanciullo, poi diventata grande passione. Non ha scudetti o titoli prestigiosi nella sua bacheca. Nella sua modestia (e senza mai Santi in Paradiso, anche quando al vertice della FIGC è salito Antonio Matarrese), il Bari è stato comunque campione d’Italia di IV serie (1953-54), ha vinto due volte il premio per il cannoniere della B (Mujesan con 19 gol nel 1967-68 e Bivi con 20 nel 1984-85), e ancora più prestigioso il premio per il primo cannoniere di A, Igor Protti con 24 reti nel 1995-96. Ci sono, poi, i successi della primavera (Viareggio, Coppa Italia e scudetto) e degli allievi regionali (2 scudetti) e la “Mitropa Cup” nel 1990 e soprattutto la “Stella d’oro” del Coni.
Con i «Mondiali ‘90», il Bari lasciava il vecchio ed incompiuto «della Vittoria» per trasferirsi nel gioiello ideato da Renzo Piano, il nuovo stadio dei 60 mila. Non è stato facile dire addio a quel terreno di gioco sul quale, i settantenni come me, hanno visto giocare centinaia e centinaia di partite e sfilare campioni di tante nazionalità, anche gli azzurri d’Italia che vi sono stati 4 volte con la A, vincendo sempre. Non è semplice dimenticare le tante battaglie calcistiche vissute nel vecchio stadio dove, prima di Joao Paulo abbiamo tifato per altri funambolici attaccanti come Grossi, Maestrelli, Duè, Farinelli, Cicogna, Florio e prima di Maiellaro per fantasiosi giocatori come Grolli, Arienti, Cavone, Voros, Raul Conti, Mario Fara, Stefano Pellegrini, Scarrone, Iorio, Serena, per non parlare dei portieri-paratutto Zamberletti, Cubi, Casirago, Ricciardi, Costagliola Moro, Grandi, Cataldo, Buttarelli, Magnanini, Guizzardi, Lonardi, Spalazzi, Mancini e, per ultimo, Sandro Mannini.
La nuova era al “San Nicola”, la cosiddetta “astronave” creata dalla fantasia di Enzo Piano, cominciava a settembre 1990 dopo i mondiali che avevano visto 5 partite a Bari durante le quali furono “osservati” due calciatori poi acquistati: Raducioiu e successivamente David Platt. Il primo anno al San Nicola si concludeva con la permanenza grazie ad una doppietta di Joao Paulo (21) contro il Milan. Ma, assieme ai venti di guerra (Desert Storm) c’erano pure quelli che partivano da una frangia di tifo che inquinava l’ambiente e la serenità della squadra.
Per me, tifosissimo degli “anni 30-40-50”, avvertivo disagio nel constatare come l’appoggio alla squadra era diventato quasi un dispetto. Un dispetto che faceva male a tutti. Ma si andava avanti così. Le spese folli per avere Platt (quante settimane di tira e molla consumate) inguaiavano i conti della società che con la squadra retrocedeva in B.
Veniva richiamato Carlo Regalia che aveva risanato la gestione De Palo nel 1973 e quella successiva negli “anni 80”. Regalia è stato e resta un mio “pallino”. Ho avuto ed ho per lui una stima incondizionata che, peraltro, gli viene riconosciuta non solo da tutta l’Italia del pallone.
Carlo Regalia (che al Bari l’aveva voluto un tifoso “sano” come Michele Mincuzzi) si metteva al lavoro ed in pochi anni i debiti ed i saldi in rosso sono azzerati. I Matarrese quasi non credono: dal 1981 al 1992 hanno versato, in proprio, oltre 54 miliardi per il Bari. Ora la società è in attivo. Vincenzo Matarrese e Carlo Regalia costruiscono un club in grado di sopravvivere con le proprie risorse, senza svenarsi per far felici tifosi e giornali.
Il Bari ottiene, prima con Materazzi (Tovalieri e Protti uomini- gol) e poi con Fascetti (Ventola e Guerrero in gol) due promozioni fra assurde contestazioni.
Ormai, il tifo con striscioni offensivi e parolacce ha preso il sopravvento anche fuori dagli stadi. A Bari, poi, episodi del genere si sono ripetuti molte volte. Ho cercato di evidenziarli e di stigmatizzarli nel mio ultimo volume sul Bari uscito nel 1998. I processi sono continuati fino all’assurda campagna per sostituire la dirigenza.Il pretesto partiva da una campagna “anti-Fascetti”, l’allenatore per il quale avevo scritto una lettera personale a Vincenzo Matarrese perché non lo prendesse.
Non per incapacità tecnica ma solo per i suoi conosciuti precedenti e la sua irascibilità. Fascetti, comunque, faceva rimanere il Bari per quattro anni di seguito in A (anche con i gol di Masinga, offeso inizialmente dalla piazza) ma quello che più conta, dava risalto alla politica di Regalia e di Matarrese di tenere maggiormente conto del bilancio del club. Cosa che ho sempre condiviso e sostenuto . Ed ora, dopo la “cordata senza corda” come l’ha definita il prof. Antonio De Feo presidente del circolo Tennis, tutti hanno dato ragione a Matarrese (che si era addirittura dimesso dopo gli atti di violenza subiti) ed a Regalia presentatisi sul palcoscenico nazionale con una società sana e senza debiti. Non a caso in un editoriale apparso sulla rivista “IL BARI” leggo con piacere che “se il calcio vuole resuscitare dal suo crack, deve cominciare a percorrere la strada intrapresa
dalla società del Bari da diversi anni. Una società che, senza autoelogiarsi, viene presa a campione nel Belpaese”.
Nei suoi 95 anni di esistenza (73 in campionati nazionali) il Bari si fregia di 28 tornei di serie A, 33 di serie B, 8 di C, 2 di IV serie, 1 misto centro-sud e 1 in divisione nazionale. È la squadra più “gettonata” di Puglia ed a me tanto cara.